Ricerca personalizzata

martedì 30 giugno 2009

CORSI FORMAZIONE

Teresa D. Milano

Gentilissimi Signori,
leggo spesso il vostro spazio e trovo che sia molto interessante e d'aiuto. Da tempo vorrei chiedere una cosa. Non l'ho mai fatto perchè pensavo che prima o poi qualcun altro lo domandasse ma visto che così non è lo faccio io.
Cosa ne pensate dei corsi formativi? Servono a noi giovani per imparare o, visto che oltretutto costano, è meglio fare altro? Io ho dubbi in proposito e se posso dirlo credo d'aver imparato più a leggere e segnarmi le vostre risposte che non partecipare a tanti corsi.
Vi ringrazio e vi saluto. Resto in attesa della risposta.

Mia cara Teresa,
credo d'aver accennato o sviluppato più volte questo tema. Posso dire cosa ne penso perchè ne sono coinvolto direttamente e la risposta che Ti do potrà apparire, per taluni, shoccante.
I corsi formativi non servono assolutamente a nulla e non funzionano semplicemente perchè la gente ritiene di dover imparare “d'ufficio” solo per il fatto d'aver pagato una quota di partecipazione.
Come dire: “io pago ed il corso mi deve risolvere i problemi automaticamente. Quando il corso termina (di solito dopo poche sedute o addirittura dopo poche ore) io esco dalla sala e devo saper tutto.”
Fatta questa premessa piuttosto forte, veniamo ad una spiegazione.
Chi tiene un corso formativo, se è bravo, si accorge dopo pochissimo chi, tra i partecipanti, potrà trarne un beneficio e chi non capirà nulla. Ciò significa che è il comportamento e la disponibilità di ognuno che fa si che un corso sia davvero utile o no.
Invece, l'approccio, come scritto, è diverso. L'azienda che solitamente fa partecipare i dipendenti ad un corso, paga e, chissà per quale motivo, ritiene implicito che pagando, anche chi non è portato debba divenire genio. Poi, quando si accorge, nel tempo, che nulla è cambiato se non per pochissimi, ritiene d'aver buttato i soldi.
Parallelamente, anche i partecipanti singoli che magari pagano di tasca loro, proprio per quest'azione del “io pago” ritengono che, di contro, impareranno per forza. Quindi, con questo atteggiamento, entrano in sala, ascoltano e mentre ascoltano criticano. Qualunque cosa venga detta, anziché analizzarla profondamente per trarne una morale, la confrontano esclusivamente con un loro vissuto e con la loro esperienza, bocciando ogni cosa che non corrisponda a quanto loro hanno già in testa.
I corsi non sono più quindi formativi ma diventano un punto di confronto tra “quello che dice chi parla e quello che io so che davvero accade”.
Non si può imparare nulla per obbligo o perchè si paga. Si paga per avere il diritto di partecipare, non di imparare. E chi insegna non può certo inculcare con la forza i concetti nelle teste di chi non vuole impegnarsi. E' un po' come a scuola, cara Teresa. Ci si va perchè si deve ma non è che andandoci si impari. Si impara solo se si è attenti, se si studia, se si accettano le discussioni e se ci si impegna, Ecco perchè una parte degli studenti che “studia” veramente, trova beneficio ed una parte che ha pari opportunità di farlo, non impara niente. Quegli studenti che a fine anno vengono bocciati e si meravigliano e se la prendono coi professori, quasi sempre pensano che il loro dovere, andando a scuola, l'hanno fatto. Non vogliono capire che il loro dovere, per essere promossi, era di studiare.
Nei corsi, vale la stessa regola. Servono se chi partecipa ne ha voglia di apprendere e di migliorare. Non servono assolutamente a nulla se il partecipante entra in sala con l'idea che, avendo pagato, uscirà “laureato” senza fare alcuno sforzo.
Accenno inoltre brevemente alle colpe che anche le aziende hanno. Solitamente la preparazione di un corso formativo avviene in questo modo. Si convoca il formatore e gli si dice che si vuole dare l'opportunità ai propri dipendenti (venditori o impiegati o manager) di migliorare. Gli si da carta bianca per preparare il corso. Una volta costruito, durante una prima presentazione all'azienda, ecco le prime pressioni. Si inizia col “vorremmo che Lei premesse più su questo concetto” oppure “sarebbe opportuno che i partecipanti capissero che noi dobbiamo fare così”. Il formatore prende atto delle richieste dell'azienda ed inizia a correggere il corso. Poi, strada facendo, arrivano le ulteriori pressioni. “Occorrerebbe anche che quel punto relativo a quella cosa, venisse accettato.” o anche “Cerchi di fare in modo che accettino questa necessità aziendale” oppure “ciò che vale veramente è che il corso, alla fine, faccia comprendere che bisogna agire in questo modo”
Così, da una totale libertà d'azione spesso si arriva ad uno stravolgimento del corso stesso con un formatore che si rende conto di dover sostenere un meeting, non tanto per formare quanto per portare avanti un gretto discorso aziendale, convincendo su un particolare punto o una situazione.
Sui tempi? Si inizia con l'idea di un corso a più livelli da tenersi in tre giornate intere. Poi si riduce a due. Le pressioni per agire su un determinato punto o situazione fanno anche giungere l'azienda all'idea che due giornate siano fin troppo. Insomma, alla fine, si riuniscono i venditori o gli impiegati per qualche ora. Dell'idea originale e del corso non c'è più nulla, ma poco importa. L'azienda paga ed anche in questo caso , ritiene che sborsando euro, i dipendenti entreranno “normali” ed usciranno “geni”.
Suggerimento ai partecipanti: non si partecipa ad un corso pensando a ciò che l'azienda ha pagato. Non si partecipa nemmeno solo perchè il corso è stato programmato e si è stati invitati. Non si partecipa neppure se non si crede all'utilità. Parteciparvi è solo una perdita di tempo.
Si partecipa ad un corso se si ritiene che quanto verrà discusso può essere utile al proprio sviluppo professionale. E con questa finalità, si interviene. Si dovrà intervenire, discutere, interrompere, chiedere chiarimenti e sopratutto stare con la testa sugli argomenti. Insomma, dev'esser chiaro che non si impara solo perchè si partecipa ma si impara se si vuole.
Ora, sull'utilità o meno, devi riflettere Tu. Probabilmente anche Tu, magari per scarsa informazione, hai partecipato senza convinzione e non ne hai tratto benefici. Prova, semmai dovesse capitarTi, di partecipare pensando a quanto ho scritto. Poi, se vorrai, mi ridirai il Tuo pensiero.
Ciao
p.s. La parte relativa al comportamento aziendale esula dal contesto ed è stata da me scritta solo per dare una completezza d'informazione.

domenica 28 giugno 2009

COME AMARE IL LAVORO

Francesca (loc. n.c.)

Salve,
ho appena scoperto questo blog e sono rimasta molto colpita dalle risposte accurate ed esaurienti.
Vi pongo il mio quesito, forse è più uno sfogo, ma ho bisogno fortemente di un consiglio.
Mi chiamo Francesca ed ho 23 anni.
Immagino il lavoro come un qualcosa che appassiona, qualcosa che si è sognato e per cui si ha combattuto e faticato anni.
Non sa quanto mi piacerebbe recarmi ogni mattina al lavoro con il sorriso, fare gli straordinari non perché sono obbligata dal datore di lavoro, ma per pura passione e dedizione a ciò che faccio. Portarmi il lavoro a casa o rimanere sul posto di lavoro fino a tardi PERCHE’ AMO QUEL LAVORO per me sono immagini paradisiache. Davvero!
Purtroppo sono lontana anni luce da tutto questo: sono impiegata, reparto amministrazione. Dire “non ho più stimoli” sarebbe inesatto, perché di veri stimoli non ce ne sono mai stati, nemmeno all’inizio. C’era la paura di sbagliare e l’impegno per evitare quest’eventualità.
Il lavoro che faccio è la diretta conseguenza di quello che ho studiato durante le medie superiori (sono perito aziendale e corrispondente in lingue estere), peccato però che l’indirizzo di studi scelto non mi sia mai piaciuto a partire dal primo anno.
Io avevo scelto il liceo socio-psico-pedagogico, scelta per altro a cui mi avevano indirizzato esplicitamente i professori delle medie inferiori…ma è bastato un “consiglio” di mia madre (“dopo devi fare l’università!Ma ne avrai voglia a 19 anni? Senza università, se scegli il liceo, non hai niente in mano!”) per tradire i miei desideri e farmi scegliere ben altro.
Possiamo riassumere il tutto con un “uno sbaglio dietro l’altro”, causato magari da una mia grande insicurezza generale, cosa di cui ho sofferto sin da bambina.
Da bambina ero una gran sognatrice: passavo intere giornate a fantasticare, inventare storie, scrivere diari, leggere e disegnare…ora non sogno più, anche se sognando difficilmente riuscirei a campare.
Ci si può ammalare per insoddisfazione lavorativa? Oggi arrivo quasi a dire sì…è come se fossi in un vicolo cieco: vorrei cambiare lavoro, ma non so cosa potrei mai fare e se ne sarei o meno in grado.
Anticipando la sua risposta: “Prima di tutto si cerchi un consulto psicologico!”, spero di cuore che la mia lettera venga letta da qualcuno.
Cordiali saluti.
Francesca

Mia cara Francesca,
ho riportato interamente la Tua lettera perchè è sempre bello leggere e far leggere uno scritto quando chi scrive sa rappresentare bene, con padronanza di linguaggio, un certo fatto. E Tu lo sai fare. Complimenti!
E' vero, il Tuo è uno sfogo ma alla Tua età si è nel pieno diritto di farlo, e di farlo con passione.
Il Tuo periodo “Non sa quanto mi piacerebbe....” lo comprendo perfettamente perchè (non essere invidiosa) è ciò che è stato alla base della mia esperienza lavorativa e lo è anche tutt'oggi. Ricordo i miei primi passi davvero vissuti con quell'entusiasmo che Tu vorresTi ma che non trovi; entusiasmo che, come un volano, ti porta ad appassionarti sempre più a ciò che fai e la passione, ad entusiasmarti. Ed è ciò che dovrebbe essere veramente il lavoro.
Non hai anticipato, nel finale una mia risposta. Non Ti consiglierei un consulto psicologico perchè altrimenti dovrebbe essere in analisi la quasi totalità del mondo lavorativo, senza peraltro trovare vere via d'uscita. Ce la farai, vedrai. Occorre però, forse, un tantino di coraggio in più.
Non prenderTela nemmeno con Tua madre. Il Tuo punto di vista e la prospettiva da cui vedi le cose sono indubbiamente e per forza diverse dalle sue ma, quando sarai madre dirai e farai le stesse cose. Cambiano i tempi ed i contesti. Possono risultare successivamente errate in parte o totalmente, ma nascono da un vissuto; da un epoca diversa e soprattutto come atto protettivo e gesto d'amore verso una figlia. I consigli; questi benedetti consigli che i genitori danno, non hanno mai il fine di creare ostacoli, anche se forse, a volte, li creano. Devi comprendere che le cose vanno viste e posizionate nel contesto de momento in cui vengono dette. Può darsi che la situazione economica della famiglia, in quel momento non permettesse di dire ad un figlio “fa ciò che vuoi”. Se lo analizzi in questo modo, capirai che il suggerimento di Tua madre era improntato a non crearTi ulteriori e più grossi problemi o delusioni successive . Ciò che ha detto Tua madre, in realtà, era probabilmente corretto e Tu lo hai riportato benissimo. Credo che ogni genitore abbia più volte quantomeno pensato la stessa cosa. Ed è giusto che un genitore lo pensi e lo dica.
Va trovato poi, da parte del figlio, un equilibrio tra il consiglio ricevuto e l'azione successiva. Forse è questo che Ti è mancato perchè, come scrivi, hai sempre avuto una grande insicurezza.
Se i genitori, quando siam piccoli, ci dicono che mettendo la mano sul fuoco ci scottiamo, ce lo dicono a fin di bene. Non è sempre necessario fare l'esperienza diretta per accorgersene e, tranne rari casi, stiamo ben attenti a farlo. Se non fossero attenti a dirlo, avrebbe ben diritto il figlio a lamentarsi sul fatto che “se lo sapevi che il fuoco scotta, potevi anche dirmelo prima”.
Quindi, non prenderTela con Tua madre che probabilmente, anche se non lo dice, oggi ha capito d'averTi indirizzato verso qualcosa che non Ti soddisfa. Ma, ripeto, la cosa non va analizzata col senno di poi. Ciò che ha fatto l'ha comunque fatto, come tutti i genitori, sempre pensando di aiutarTi.
Veniamo ora a Te. Hai ventitré anni ed un lavoro che poco sopporTi . Vorrei chiederTi: c'è qualcosa che Ti vieta di riprendere gli studi, in qualche modo o forma, per sviluppare quelle che sono le Tue passioni? Sai le lingue. Ti piacciono? PotresTi partire da questo per costruirTi qualcosa di più motivante. Conosci inglese e francese? Perchè non studi nuove lingue? Sai che lo spagnolo è la lingua più parlata al mondo? E sai che conoscere lingue orientali può essere utilissimo per il futuro? Non voglio, per carità, crearTi confusione ma solo darTi nuovi orizzonti su cui spaziare. InformaTi anche se, partendo dal Tuo titolo di studio, puoi proseguire, come e verso quale strada. Vedi se il punto d'arrivo può interessarTi. Se no, guarda altrove.
Cerco d'essere sempre molto sincero. Allora Ti dico che, opinione personale, stai svolgendo un lavoro che ritengo da sempre essere il più noioso al mondo. Probabilmente chi lo ama dirà l'opposto e sarà così certamente, ma anch'io come Te, ho una visione del lavoro diversa e pensare di operare nell'amministrazione non mi rallegrerebbe. Ritengo davvero sia un lavoro in cui, anche volendo, non possano esserci stimoli. Del resto, è un'occupazione in cui non viene richiesto d'averne. Non ci vuole fantasia ma precisione; non ci vuole libera scelta di iniziativa ma corretta ed onesta abilità nel seguire la prassi. Insomma, detto tra noi: una bella noia. Hai ragione!
Credo però che, con un po' di fantasia, Tu possa renderlo meno pesante. Il lavoro non Ti dà stimoli? Creali Tu. Datti i soliti obiettivi di cui spesso parlo. Hai pratiche sul tavolo che Ti pesa portare avanti? FissaTi l'obiettivo di “farle fuori” entro una data ben precisa e fallo. Quando avrai raggiunto l'obiettivo, Ti sentirai meglio. Capirai d'aver raggiunto qualcosa che Tu Ti eri data. Ti viene chiesto di risolvere un problema? Datti un tempo stringato per farlo e segui il tutto per trovare la soluzione velocemente. Proverai a Te stessa che, volendo, puoi fare ciò che Ti metti in testa. Una collega è in difficoltà? Aiutala. C'è qualcosa che non comprendi perchè è al di là delle Tue conoscenze di studio? Chiedi a chi di dovere di saperne di più. Insomma, se e fino a quando svolgerai ciò che stai facendo, devi riuscire a trovare in esso gli spunti che permettano di motivarTi.
Può darsi anche che Tu non abbia trovato mai soddisfazione perchè, come scrivi, eri e sei troppo impegnata a cercare di non sbagliare. Ma sul lavoro tutti sbagliano! Se passi il Tuo tempo alla ricerca della perfezione, non andrai mai avanti. Sarai sempre tentennante su tutto e l'incertezza crea insicurezza e quest'ultima crea ansia. Per carità, allontanaTi da questi pensieri e da queste azioni. Sbaglia se devi sbagliare e poi correggiTi, ma non stare ferma.
Vorrei anche che Ti togliessi dalla mente il pensiero (o frase fatta) “uno sbaglio tira l'altro” e sostituiscilo con una frase che mi piace di più: “un successo tira l'altro”. Pensare positivo cara Francesca, costa uguale ma rende di più. MettiTi a caccia di successi e non di errori. Segui il mio consiglio circa gli obiettivi ed inizierai a vedere anche l'attuale lavoro come un gioco (un mezzo) che Ti serve per raggiungerli.
E veniamo infine all'ultima parte del Tuo adorabile scritto:
“Da bambina ero una gran sognatrice: passavo intere giornate a fantasticare, inventare storie, scrivere diari, leggere e disegnare…ora non sogno più, anche se sognando difficilmente riuscirei a campare.
Ci si può ammalare per insoddisfazione lavorativa? Oggi arrivo quasi a dire sì…è come se fossi in un vicolo cieco: vorrei cambiare lavoro, ma non so cosa potrei mai fare e se ne sarei o meno in grado.”
I sogni, Francesca, non devono morire, ad ogni età. Continua a sognare ma prova a capire se non sia possibile costruire qualcosa sui Tuoi sogni. Inventavi storie. Erano belle? Ben scritte? SapresTi riprendere questa Tua passione? Erano racconti, fiabe? PotresTi, nel Tuo tempo libero, prenderTi uno spazio di tempo e dedicarTi a scriverne un po' per inviarle a qualche editore. E' un sogno. Riceverai magari risposte negative ma poco importa. E se prima o poi arrivasse una risposta positiva?
Sogna, Francesca, sogna e cerca di tramutare in realtà i sogni.
Infine, devo dirTi che mi rattrista, anche non conoscendoTi, che Tu dica che vorresTi cambiar lavoro ma non sai nemmeno se saresTi capace di farlo o di svolgerlo. Che significa?
Chiudi gli occhi e chiediTi, rispondendo però d'impulso: “se potessi mi piacerebbe fare...” “e se non questo, vorrei fare....” “oppure ancora mi piacerebbe fare....”
PrendiTi nota delle risposte che probabilmente darai in ordine d'importanza. Ti troverai ad aver davanti le possibilità in cui sapresTi dare il massimo. E possono queste essere compatibili con le Tue conoscenze attuali o devi proseguire gli studi? O ancora devi solo slegarTi da qualche vincolo e lanciarTi?
Sono risposte che io non posso darTi ma Tu, se Ti leggi dentro, si.
Ti ricordo che, al di là degli studi, si può trovare soddisfazione in un altro lavoro, magari ritenuto più semplice ma che permetta di sentirlo più vicino al proprio modo d'essere. Non bloccarTi quindi semmai dovessi capire che forse qualcos'altro potrebbe farTi sentire più libera.
La sensazione di trovarsi in un vicolo cieco è brutta ma da questo vicolo puoi uscirne con altre scelte che devi avere il coraggio di prendere. Ci si può ammalare per insoddisfazione lavorativa? Eccome. Si può entrare in depressione esattamente come per qualunque altra azione che dobbiamo svolgere o subire per forza ma che non sentiamo ci appartenga.
Ed è proprio per questo che Ti ho suggerito di trovare punti di soddisfazione dandoTi degli obiettivi a cui mirare. Allora:
Per il lavoro attuale: darsi obiettivi da raggiungere.
Per i sogni: portali avanti nel tempo libero e vedi se da questi non possa nascere qualcosa
Per il futuro: domandaTi cosa Ti piacerebbe fare. Fatti l'elenco e vedi se non sia possibile, allo stato attuale, trovare una sistemazione diversa che sia per Te gratificante. Questa potrebbe anche essere nell'attuale azienda in cui operi. E' questa un'azienda commerciale? L'ufficio vendite offre maggiori possibilità di operare con più passione. (Certo è che se lavori da un Commercialista ha ben poco da scegliere).
A lungo termine: analizza la possibilità di riprendere gli studi (che Ti servirebbe anche per sentirTi motivata)
Sempre: dimentica i pensieri cattivi che non portano da alcuna parte e pensa positivo. Ripeto: costa uguale ma rende di più!
RicordaTi: non farTi frenare dall'insicurezza su cosa sai o non sai fare; su cosa potresTi o no svolgere. Noi possiamo davvero fare ciò che vogliamo. Potrà essere dura all'inizio ma, se lo desideriamo fortemente, la riuscita è certa.
Io amo gli insicuri come Te perchè so, per esperienza, che una volta liberatisi dalle loro paure, diventano leoni, in assoluto più bravi di chi crede d'esserlo già.
Se vuoi scrivimi ancora.
Ciao

giovedì 25 giugno 2009

AMMANCHI

n.n. (loc. n.c.)

Non posso dire il mio nome ne da dove scrivo. Capirà il motivo. Anzi se può cercate di fare in modo che la lettera non sia riconoscibile. Io capirò.
In azienda ci sono stati ammanchi di merce. Sono state svolte indagini ed alla fine sono arrivati a me. Sono stato preso da parte e mi è stato detto che o lascio l'azienda o mi denunciano. Inutile aver detto che non ne sapevo niente, non ci hanno creduto.
Le cose non sono proprio come dicono loro. In qualche parte piccola c'entro anche io ma i fatti si sono svolti diversamente. Ora non so cosa fare. Se me ne vado ammetto le mie colpe. Se resto rischio una denuncia che anche se tirerà in ballo altri, comunque coinvolgerà anche me perchè l'azienda partirà con la denuncia nei miei confronti. Io ho famiglia e non voglio che la cosa si sappia. Sono in un guaio. Che faccio?
Grazie

Caro n.n.,
sei in un guaio, non vuoi che la famiglia lo sappia, Tu centri ma non solo Tu. Si pensa sempre dopo alle conseguenze. Tutti sono sicuri che queste cose possano funzionare per sempre perchè si è furbi mentre gli altri no.
Sappi che gli ammanchi, sopratutto di merce, nelle aziende, sono facilissimi da scoprire e occorre essere proprio poco furbi per non saperlo.
Che aiuto posso darTi? Non capisco neppure perchè dovrei aiutarTi ne in cosa ma lo faccio ugualmente. Posso suggerirTi alcune strade:
dire all'azienda che sei pentito. Chiedere di non intervenire nei Tuoi riguardi per rispetto alla famiglia e, di contro, Tu cercherai un altro lavoro entro il più breve tempo possibile. Ti dirai disponibile a firmare delle dimissioni in bianco chiedendo però che l'azienda Ti dia la possibilità di trovare altrove. L'azienda si toglie quindi un peso e la rogna di una denuncia con tanto di spese legali. Questo permetterà loro di avere la sicurezza di perderTi ( firmando le dimissioni in bianco).
Difatti, con le leggi attuali e l'occhio di riguardo di certi giudici, non è detto che chi è colpevole anche di questi fatti venga poi tolto dall'organico. PotresTi risultare colpevole dall'indagine ma rimanere nella Tua posizione. E per l'azienda questo sarebbe peggio che darTi il tempo di trovare altrove.
Secondo suggerimento: trovarTi un avvocato per difenderTi dall'accusa nella speranza che tutto si risolva a Tuo favore e che Tu non perda il posto di lavoro. Sta a Te vedere sino a che punto sei inguaiato e sino a che punto vuoi rischiare. Certo è che, anche ammettendo che per qualche fortuito inghippo giudiziario Tu ne esca, la possibilità di rimanere a vivere in quest'azienda (vivere con serenità, intendo) sarà pari a zero. SaresTi sempre super controllato, spiato, relegato in un angolo sino a quando la situazione diverrà insostenibile e Ti vedrai costretto ad andarTene.
Nessuno si tiene qualcuno che non risponde alle norme di correttezza e serietà. Credo che questo Tu lo possa capire da solo.
Vedi Tu.

martedì 23 giugno 2009

VENDERE DIETRO IL BANCO 3

Francy T. Torino

Posso intromettermi ? Ho letto le richieste e le domande fatte da Anna circa il lavoro di comessa. Si da il caso che anch'io sia un commesso. Ho un diploma di scuola superiore e quando ho iniziato a cercare lavoro non ho trovato nulla che facesse al mio caso. Volevo qualcosa che mi permettesse di essere a contatto con altre persone e mi indirizzavo quindi verso la vendita (agente, venditore..) ma le esperienze sono state non positive perchè senza esperienza andavo a beccare società marginali con grossi problemi. Poi mi è capitata l'occasione di un buon negozio in centro ed ho detto, perchè no? Potrebbe essere qualcosa di interessante. Così ho iniziato e devo dire che, almeno per ora, mi piace. Trovo però qualche difficoltà ogni tanto non avendo seguito nessun corso formativo che mi spiegasse come approcciare il cliente. Vendere in negozio è comunque avere un rapporto commerciale con un cliente e quindi occorre sapere bene come affrontarlo.
In quest'ottica i suggerimenti che lei ha dato ad Anna mi hanno aperto la mente. Ho subito cercato di mettere in atto quanto scritto e, ammetto, ho trovato immediatamente benefici ma sopratutto stimoli a vedere il lavoro sotto un'ottica di raggiungimento obiettivi che non mi davo perchè non ero consapevole di dovermeli porre.
Grazie perchè le cose sono divenute ancor più interessanti. Posso saperne di più? I suoi suggerimenti sono terminati o ne ha altri ancora?

Caro Francy,
ho ancora suggerimenti da dare. Ne avrò sempre perchè è sufficiente una domanda a stimolare creativamente una risposta.
Tu hai fatto un percorso piuttosto lineare. Volevi vendere ed alla fine hai trovato la via della vendita in negozio per comunicare col cliente. Credo Tu abbia già una buona base anche se forse non lo sai. Il desiderio di sviluppare ciò che si vuole pone sempre nella migliore condizione per operare al meglio. Il Tuo approccio mentale Ti pone di essere quasi “riconoscente” al cliente che Ti permette quotidianamente di portare avanti il lavoro.
Non ho detto a caso il termine “riconoscente” perchè nel rapporto venditore/cliente la riconoscenza fa piacere. Quando un cliente Ti è riconoscente di qualcosa, certamente sarai contento e lo ricorderai. Spesso nella vendita, il commesso dimentica che la riconoscenza è qualcosa che può far piacere anche al cliente.
Se infatti fa piacere a Te perchè non dovrebbe farlo a lui?
Mi scrivi che la trattativa per Te è un mezzo per comunicare col cliente. Hai cercato questo lavoro proprio per questo motivo. Bene. Ora prova a pensare al cliente e vedi la trattativa sotto questo aspetto: “l'acquisto è un mezzo per soddisfare un bisogno”.
Sai Francy, vi sono ancora moltissimi venditori o commessi che pensano la vendita come un mezzo per vendere oggetti (abiti, strumenti o quant'altro).
Nulla di più sbagliato, Chi pensa questo è terribilmente fuori strada. Il super commesso deve mentalizzare questo semplicissimo concetto:
“io non vendo oggetti ma soluzioni ai problemi”
La differenza è enorme. Prova a ripetere mentalmente questo concetto e rifletti. Vendere un oggetto è qualcosa che si può fare per sé. Non apre agli altri. Tendenzialmente posso vendere molti oggetti ed essere contento ma l'atto rimane qualcosa esclusivamente mio. Può non interessarmi di ciò che pensa il cliente che ha acquistato e nemmeno interessarmi se l'acquisto lo ha soddisfatto o meno. Ma se io non vendo oggetti ma soluzioni ai problemi, immediatamente mi pongo nell'ottica e dalla parte di chi acquista. Il mio compito è quello di aiutarlo a risolvere qualcosa che in quel momento per lui è un problema.
Interessarsi del problema; farselo spiegare e poi suggerire la soluzione più idonea pone il venditore dalla parte di chi non vende un oggetto ma vende soluzioni.
Sai la differenza? In questo secondo caso io commesso ho pensato al cliente e questo lo porrà nella condizione di essere, un domani, riconoscente nei miei confronti.
Qui il tema si amplia ulteriormente perchè devo fare un accenno, seppur limitato, a qualcosa che necessiterebbe di molto spazio. Comunque, proseguiamo con le mie solite frasi da ricordare.
“il cliente, durante la visita o la trattativa, desidera sempre ricevere carezze”.
Hai mai sentito questo concetto? Le carezze sono considerazioni che tutti noi vogliamo o vorremmo nella vita. Tutti abbiamo bisogno di sentirci considerati; tutti noi teniamo ad avere premi, riconoscimenti gratificazioni. Il cliente, nel punto vendita, non è da meno. Se si sente gratificato; se sente di ricevere “carezze” sarà portato ad essere riconoscente e, spesso, la riconoscenza è l'acquisto.
Il cliente va ascoltato ma anche coccolato, stimato, accarezzato.
Il termine “carezza” che si usa in psicologia ha il significato di considerazione ed apprezzamento.
Chi non vorrebbe sentirsi posto su un piedistallo?
Ricorda sempre Francy che ad ogni carezza ricevuta, al cliente verrà naturale, per situazione psicologica, comportarsi in modo identico ovvero, ritornare la carezza.
Tu sei gentile e cortese con me ed io sarò gentile, cortese e premiante con Te. Se io cliente non posso dimostrare diversamente la mia carezza, la farò dicendoTi che sei bravo come commesso e venditore. Lo dimostrerò venendo in negozio, chiedendo di Te per essere servito o aspettando se Tu sei alle prese con un altro cliente. Lo dimostrerò parlando bene di Te con gli amici, mandandoTi nuovi clienti.
Tante saranno le carezze ricevute, tante saranno le carezze ritornate.
Come puoi dare carezze? Semplice:
ascoltando il cliente
sorridendo quando lo guardi o quando parla
potendo, anche toccandolo (sul braccio, sulle spalle)
ripetendo ciò che ha detto il cliente quando ritieni d'aver compreso
dimostrando attenzione
facendo cenni positivi di consenso su alcune considerazioni espresse dal cliente
dedicandogli la parte del tempo necessaria, in esclusiva e non passando da un cliente all'altro lasciandolo solo.
Ecco: questi sono semplici modi per dimostrare al cliente che lo stai accarezzando, che tieni a lui.
Ciao e scrivi ancora se vuoi.

giovedì 18 giugno 2009

CONSULENZA MARKETING

Gianluca B. Roma

Mi sono laureato lo scorso anno in economia e commercio con una tesi sul marketing. Con molto entusiasmo ho poi cercato di trovare un impiego in qualche grossa azienda inviando il curriculum, senza mai aver risposta. Ho cercato, parlando con amici di capire il perchè di tutto questo ma nessuno ha idee chiare. Eppure non ritengo di essere uno sciocco anche se ovviamente la mia esperienza è solo teorica. Si fa tanto parlare di qualità del lavoro; preparazione, serietà e professionalità ma poi nulla accade.
Ho quindi deciso di aprire una mia mini società di consulenza di marketing (mini società in quanto sarò io a svolgere tutto).
Volevo il vostro parere. Riuscirò pur sapendo che dovrò faticare e fare eventualmente gavetta? Quali sono i tempi? A chi dovrò rivolgermi? Quali settori o clienti dovrò contattare?
Se potete aiutarmi ve ne sarei grato.

Egregio Gianluca,
se permetti Ti do del Tu perchè sei ancora in un'età in cui posso permettermelo. Dopo qualche tentativo di trovare lavoro spedendo curricula a destra e a manca, Ti ritrovi a domandarTi perchè nessuno Ti abbia mai chiamato ed offerto una posizione idonea.
Credo d'averlo già scritto diverse volte: non si inviano curricula a caso, ad aziende che non lo hanno espressamente chiesto o che non hanno pubblicato un'inserzione di ricerca del personale. Se non c'è questa richiesta da parte dell'azienda, quasi sempre non vengono neppure letti o, se accade, vengono subito archiviati e la cosa finisce lì. Se le aziende dovessero rispondere a tutti coloro che scrivono e si offrono, avrebbero il loro bel da fare.
Inutile rispondere con un prestampato per dire “siamo spiacenti ma attualmente non necessitiamo di una figura come la Sua.. Siamo certi comunque che troverà presto una giusta collocazione ecc..ecc....”
Le aziende, hanno ormai smesso di farlo. Non sto cercando, quindi non rispondo.
Tu hai fatto la scoperta che fanno purtroppo in molti: uscire dall'università con una laurea non significa trovare un lavoro per quel che si è studiato. Anche perchè, Tu stesso lo dici, senti di avere una bella preparazione teorica e le aziende, purtroppo, hanno bisogno di esperienza. I neo laureati possono essere assunti da grandi gruppi che, nell'ambito di fornitissimi uffici con ampie strutture possono permettersi il lusso di avere personale da addestrare per una eventuale scelta futura (il classico vivaio). Oggi però sono sempre meno queste aziende e di fatto è sparita questa possibilità di inserimento.
Hai quindi pensato ad aprire una Tua attività in proprio e le domande che mi poni mi fanno un po' venire la pelle d'oca perchè un consulente non dovrebbe chiedere queste cose ma avere già lui stesso le risposte. Mi chiedi a chi dovrai rivolgerTi e quali settori o clienti dovrai contattare. Accidenti, scusa la franchezza, ma sei Tu che devi sapere i settori e gli eventuali clienti interessati. Io potrei dirTi che tutti i settori sono quelli giusti. Se inizi col dubbio di come trovare la clientela, stai già sbagliando.
Continuo poi nel dirTi che forse potresTi commettere un altro errore proprio nel voler iniziare un'attività simile. Vedi Gianluca, il consulente deve avere un'esperienza da offrire. Come puoi Tu pensare di poter interessare un'azienda se non l'hai maturata?
Voglio farTi uno “schizzo” del consulente e delle consulenze aziendali.
Le consulenze sono apporti di esperienze che le aziende prendono dall'esterno, proprio per migliorare la propria attività di marketing. Un po' come decidere di farsi un'iniezione di vitamine per rinverdire qualcosa che sta appassendo. Un ricevere idee nuove.
Le consulenze sono collaborazioni per studiare eventuali nuove strategie atte a ottimizzare la funzione del marketing interno.
I consulenti sono coloro che offrono, individualmente o in società, le loro conoscenze e capacità nate da anni di esperienza facendo quel lavoro (solitamente in azienda).
Tendenzialmente ognuno può aprire un'attività di consulenza perchè ognuno è libero di aprire un ufficio e offrire consigli basandosi anche soltanto sulla propria opinione. Il termine consulenza sta a significare che si è disposti ad aiutare qualcuno dicendo loro cosa, secondo il consulente, sarebbe opportuno fare. Sta poi a chi ha consultato, decidere se mettere in atto o meno il suggerimento.
Nell'ambito del marketing poi, vi è da dire che si è ampiamente stra-abusato sulla definizione “consulente di marketing”. La parola era bella, esotica e quindi chiunque avesse o volesse dire qualcosa ad un'azienda, si presentava come consulente di marketing anche per vendere oggetti regalo.
Fortunatamente oggi le cose vanno un po' meglio, ma solo perchè sono state le aziende clienti a fare una cernita tra i vari consulenti che si offrono.
Tieni presente che quando cerca un consulente di marketing, l'azienda cliente cerca tendenzialmente non un conoscitore di settori ma un esperto di situazioni. Ed è proprio questa la differenza tra coloro che vendono idee valide ed altri che non sanno che pesci pigliare.
L'esperienza in un settore può significare poco. Ciò che conta è sapere come muoversi e come gestire le situazioni che si vengono a creare nei mercati.
I contatti che l'azienda tiene col consulente, per conoscerlo, finiscono sempre con la presentazione da parte dell'azienda delle problematiche da gestire e la richiesta al consulente, di un progetto di base su come vedrebbe la soluzione.
Va da sé, che molto spesso (in Italia) avviene che il consulente per apparire credibile ed esperto, deve necessariamente presentare un piano che, di fatto, dà la soluzione ai problemi e l'azienda tende, una volta a conoscenza dei meccanismi, ad appropriarsene, dicendo al consulente che “dovrà pensarci”.
Non sono tutte così, per carità, ma diciamo che....avviene.
Se il consulente cerca di presentare il conto, per aver la sicurezza di incassare, prima di dire cosa potrebbe fare per l'azienda, perde anche la possibilità di far vedere quanto vale. Insomma, non è poi così semplice in un mercato, come quello italiano, di troppi approfittatori.
Il consulente viene chiesto, tendenzialmente, perchè si pensa, a ragione, che non essendo coinvolto in problemi interni all'azienda stessa, sia più libero di esprimersi e non abbia distorsioni. In pratica, lo si chiama perchè dovrebbe essere più obiettivo.
La presenza di un consulente, in un'azienda già strutturata, porta inevitabilmente a dissidi che possono apparire più o meno mascherati. Chi, all'interno dell'azienda, svolge lo stesso compito, non è mai contento che qualcuno dall'esterno arrivi a dire cosa fare. Si tende a vedere questo momentaneo inserimento, anche solo di idee, come qualcuno che controlla o giudica la capacità di chi è all'interno, magari per prendere quel posto un domani. E confesso che, purtroppo, questo fatto non è poi così impossibile come si vuol far credere.
Infine, mio caro Gianluca, dico a Te quanto ho detto altre volte. Da noi la consulenza è una professione strana. Chi abbisogna dell'apporto di un consulente solitamente non lo usa; mentre viene fatto da aziende che sono già strutturate e che potrebbero benissimo farne a meno.
In altre parole: la realtà italiana è fatta da una miriade di piccole e medie aziende in cui ancora oggi la presenza della Proprietà è fuori discussione. Ebbene, queste aziende avrebbero spesso un bisogno immenso di consulenze, ma il Proprietario, proprio perchè è arrivato a costruire qualcosa da sé, ritiene di essere capace sempre ed in tutto, anche davanti alle situazioni disastrose, è certo di sapercela fare meglio di altri che, secondo la sua valutazione, non conoscono i problemi. In questo modo, chi avrebbe bisogno non ne approfitta. Le grandi aziende che hanno invece già team di marketing e dove non vi è una proprietà se non di azionariato, sono sempre propense a vedere come agirebbe un consulente in una determinata situazione.
Forse non ne avrebbe necessità ma lo fa.
Ecco, Ti ho spiegato il mondo in cui Tu vorresTi entrare. Tieni presente che non hai esperienza e quindi non hai gran che da offrire e che potresTi trovarTi in difficoltà qualora un'azienda dovesse chiederTi per chi altri hai fatto consulenze.
La valutazione ora è Tua.

martedì 16 giugno 2009

PERCHE' NON IL GOLF

Gian Roberto N. Torino

Gentilissimi Signori,
il mese scorso dietro le insistenze di un amico che voleva vedere da vicino come funziona un campionato di golf mi sono con lui recato presso un circolo torinese per assistere all'Open d'Italia.
E' stata una folgorazione. Sono entrato piuttosto scettico e annoiato pensando che mi sarei stancato solo a camminare seguendo il gioco per qualche buca ed ho finito per non sentire alcuna stanchezza dopo aver seguito per tre giorni i migliori giocatori sul campo. Non mi sono più interessato d'altro e non vedevo quasi più il mio amico tanta era la foga di seguire questo gioco che ora reputo incredibilmente bello.
Vengo alla domanda. Sono giovane e vorrei divenire maestro di golf. Mi hanno detto che ci sono le possibilità ed il lavoro è in ascesa. Ma non so altro. A chi posso chiedere?
Grazie

Caro Gian Roberto,
hai avuto la folgorazione che tanti hanno. Solo che solitamente la folgorazione è per iniziare a giocare mentre Tu addirittura l'hai avuta per insegnare.
Sappi che per fare il maestro ovviamente occorre saper prima giocare bene. Sarebbe impossibile presentare in campo qualcuno che insegni senza essere lui stesso bravo. Comunque la passione è una buona partenza.
Detto questo, puoi chiedere tutte le informazioni che vuoi alla Federazione Italiana Golf che ha sede a Roma. Tel. 06 3231825 o mail fig@federgolf.it
La Federazione ha proprie scuole per i vari settori (Professionisti, Segretari di Circolo e Superintendenti del Campo).
Sui tempi per divenire Maestro capirai da Te che sono legati alla particolare volontà di chi deve apprendere ed i costi sono ovviamente legati ai tempi necessari.
Se vuoi un consiglio, prima di tutto cerca nella Tua zona un campo pratica presso cui associarTi ed inizia a provare. Prendi lezioni, impara e cerca di migliorare. Sappi che inizialmente l'handicap è piuttosto elevato (34 colpi di vantaggio). Un giocatore professionista gioca gioca sempre sotto il par (ciò vuol dire non con 34 colpi di vantaggio ma con numerosi colpi sotto lo zero) Un maestro comunque, deve saper giocare, per insegnare bene, con un handicap attorno allo zero. Ecco perchè Ti dico di iscriverTi ad un campo pratica e Ti tirare palline seguito da un maestro.
Tuttavia, come ho detto, la folgorazione potrebbe darTi una mano per accelerare il tutto.
Ti auguro di andare in buca.

domenica 14 giugno 2009

VENDERE DA DIETRO IL BANCO 2

Anna B. (loc. n.c.)

Si ricorda di me? Sono Anna, la commessa di ventiquattro anni che aveva qualche problema di stanchezza col lavoro che faceva. La ringrazio di cuore per avermi risposto. Non pensavo che davvero le lettere fossero vere.
Devo dirle grazie perchè i suoi consigli mi hanno fatto capire alcune cose che avevo forse dentro ma che non riuscivo a far uscire. In realtà è come dice Lei. Avevo iniziato bene questo lavoro poi la routine mi ha fatto dimenticare la strada. Ora però, dopo aver messo in atto i suoi consigli ed avere davvero ottenuto risultati sorprendenti, sono curiosa di sapere di più. Lei mi ha detto che se avessi voluto avrei potuto scrivere ancora ed allora eccomi.
Faccio presente che oggi mi do degli obiettivi, faccio di tutto per ottenerli ed ogni cliente che servo e che esce con un acquisto mi riempie di soddisfazione e mi fa puntare ad otteneer sempre di più. Alcune colleghe dicono che sono sciocca ma non importa. Voglio saperne di più. Mi dà ancora una mano?

Certo, cara Anna che Ti do una mano.
Sono innanzitutto contento che quei pochi suggerimenti che Ti ho dato abbiamo prodotto un risultato. Ciò vuol dire che il seme buono era già in Te. Io ho solo potuto farTi riflettere.
Ora possiamo partire da questo nuovo concetto: “si deve vedere una vendita non come passaggio dal negozio al cliente di quanto c'è in magazzino ma piuttosto come un mezzo per comunicare col cliente. Stare dietro al banco, ascoltare il cliente, servirlo, accontentarlo significa averne cura. Coccolare il cliente vuol dire essere certi che tornerà sempre e vorrà essere servito da Te.
La soddisfazione che può dare questo lavoro è sapere che il cliente preferisce Te ad un altro commesso. Questa è la dimostrazione che hai toccato le corde giuste, che il cliente ritiene Te più brava di altre.
Per arrivare a questo va seguita questa semplice strada: aver chiaro ciò che desidera il cliente ed aver chiaro la necessità che deve soddisfare. Quando saprai questo potresti già servirlo al meglio ma se vuoi davvero dimostrargli la Tua attenzione ed il Tuo desiderio di aiutarlo, chiedigli ancora qualche chiarimento. Il cliente apprezza la commessa che cerca di comprendere meglio e premia questo interesse con la scelta di commessa “particolare”. Stai certa che quel cliente, quando verrà in negozio verrà da Te e se sarai occupata, attenderà.
Ora, prendiTi nota di quest'altro concetto da non dimenticare: Il cliente entra in negozio con un problema da risolvere (acquistare qualcosa che gli serve) e deve uscire con una soluzione (aver acquistato). Se esiste un problema, esiste una soluzione. Risolvendo la necessità del cliente, lo libererai del problema e lui Te ne sarà riconoscente.
Molte persone che operano nei negozi in qualità di commessi non hanno alcune conoscenze su alcuni temi molto importanti e che, in realtà, dovrebbero ben conoscere. Uno di questi su cui spesso mi batto, è la conoscenza del “tempo programmato”.
Tutti noi, mentalmente, pianifichiamo sempre il tempo che vorremmo dedicare ad ogni “contatto”, ovvero il tempo che decidiamo di poter mettere a disposizione per le singole necessità. Incontriamo un amico e subito pensiamo che possiamo fermarci solo qualche minuto per non creare ulteriori ritardi al resto degli impegni. Andiamo al bar, beviamo un caffè e diamo una scorsa veloce al giornale, guardando l'orologio per capire quanto possiamo fermarci. Entriamo in un negozio e sappiamo perfettamente quanto tempo dedicare a quella visita.
Ecco: questo, molti commessi non lo sanno. Pensano che il cliente quando va a fare shopping abbia tempo “da perdere” e quindi ritengono che non sia importante stargli appresso. Pensano anzi che più costui sta in negozio e maggiori sono le possibilità che veda la merce ed acquisti. Grosso errore. Il cliente entra in un negozio con un tempo programmato per fare gli acquisti che vuole. Solo se sarà servito velocemente metterà a disposizione la rimanenza del tempo per guardarsi in giro. Se invece vedesse i commessi cincischiare e perdere tempo, appena fatto l'acquisto se ne uscirà. Spesso, se intuisce che non gli viene dato la necessaria attenzione se ne esce addirittura prima del tempo pensato e senza aver acquistato.
Quindi, cara Anna, ecco il suggerimento di oggi:
segui il cliente che Ti contatta o che Tu contatti. Stagli vicino cercando di servirlo al meglio secondo quanto detto in precedenza. Accontentalo velocemente, se puoi e vedrai che rimarrà in negozio anche dopo aver acquistato, probabilmente chiedendoTi maggiori ragguagli su altri prodotti. Meno tempo perderà per trovare la soluzione al suo bisogno primario e più disponibilità avrà per dedicare altro tempo per altre cose.
Più la gente si sentirà soddisfatta e libera di rimanere nel punto vendita dopo aver fatto acquisti, maggiore sarà la possibilità che si decida a spendere ancora.
Ma, attenzione Anna, non confondere il tempo libero col tempo d'attesa.
Il cliente non ama aspettare e l'essere servito velocemente è sempre molto gradito. Invece sai qual'è l'errore classico della commessa? Quello di presentare una certa gamma di prodotti al cliente, lasciarlo a scegliere (creandogli così un problema perchè in un negozio servito il cliente vuole i consigli del commesso) dicendo spesso “faccia pure, io intanto vado dalla signora. Quando ha deciso me lo dica”.
Me lo dica un corno! Non può essere il cliente che deve correr dietro alla commessa o, dopo aver deciso, dover attendere che la commessa si liberi dell'altra cliente per tornare.
Quindi, maggiore sarà il tempo d'attesa, minore la sua disponibilità ad ascoltare, a spendere o a dedicare altro tempo a curiosare.
Quindi, Anna, il cliente va sempre seguito ed accontentato il più velocemente possibile. Poi si può lasciarlo libero di gironzolare, ma prima, va accontentato risolvendogli il problema che aveva quando è entrato.
Scrivimi ancora se vuoi.
Ciao

martedì 9 giugno 2009

SOPPORTAZIONE

Mauro Parma

Egregi signori,
non sopporto...........

Stop. Basta così. La Sua lettera, caro Mauro, può essere piena di interesse ma termina dopo che Lei ha scritto “non sopporto”.
Tutto quanto scrive successivamente non ha più valore ed io non la trascrivo proprio perchè voglio che Lei, rileggendo, comprenda che quel “non sopporto” dice già tutto.
Tenga presente, Mauro, che nella vita non possiamo mai cambiare gli altri ma solo noi stessi. Se non sopportiamo qualcuno o qualcosa, il problema è nostro. Non potendo obbligare gli altri a cambiare per farci piacere, dobbiamo agire noi su noi stessi e trovare qualcosa che ci faccia comprendere il comportamento degli altri. Il non sopportare qualcuno, tendenzialmente indica che noi siamo in qualche modo arrabbiati e che riversiamo su altri questo nostro stato di cose. Dobbiamo quindi capire noi stessi e comprendere il perchè siamo irritati.
Dire che lo siamo perchè gli altri sbagliano con noi o perchè non ci capiscono è troppo banale. Tenga presente che se una persona non capisce Lei è perchè Lei non riesce a farsi capire da quella persona. Non cerchi quindi di dare pugni in testa alla persona nel tentativo di cacciarle dentro ciò che Lei vuole che comprenda ma piuttosto cerchi di riflettere su come dire ciò che vuole in un modo diverso, comprensibile alla persona stessa.
Un ingegnere che parla di progetti costruttivi con un muratore deve parlare un linguaggio semplice con termini che siano comprensibili alla persona che ha difronte.
Ha mai seguito un programma televisivo dove uno scienziato spiega una propria teoria senza curarsi d'essere chiaro e d'essere capito da chi non è scienziato? Dopo un po' Lei si annoia, fatica a comprendere e gira canale.
Il problema, in quel frangente è Suo o dello scienziato? E' di quest'ultimo che non riesce a comprendere che per essere compresi dagli altri occorre mettersi al loro livello.
Chissà, magari quello scienziato, se gli dicessero che non viene capito, risponderebbe: “non sopporto chi non capisce...”
Cordiali saluti

domenica 7 giugno 2009

MARKETING

F.F. (loc. n.c.)


Egregio signore,
sono diplomato. Ho terminato due anni fa gli studi e prima mi sono concesso un periodo di riposo poi ho iniziato a pensare a cosa fare. Le strade a cui mi portano gli studi mi indirizzano verso un impiego in ufficio ma credo proprio che la cosa non faccia per me. Vorrei aprire un'attività indipendente e qui la scelta è ampia. Piano bar; wine bar; pub, privé, ed altre cose del genere.
Certo, il danaro non ce l'ho ma ho già parlato con i miei genitori che mi sosterranno e poi ci sono altri quattro amici che diverrebbero soci.
Cosa dobbiamo fare per decidere e partire?
La ringrazio per i suggerimenti


Mio caro F.F.,
la Tua storia è simile a quelli di molti altri giovani che, sinceramente penso, non riescano a crescere parallelamente con l'età biologica e mentale. Tu poi, da quanto mi dici, dovresTi avere addirittura circa vent'anni e quindi, in un certo qual modo, sei scusato per l'approccio che hai verso il futuro e la vita. Questo però non Ti deve consentire di agire in modo insensato o con faciloneria perchè, come sempre, sono sempre i genitori ad andarci di mezzo.
I Tuoi studi Ti indirizzerebbero verso cose che non Ti piacciono. (Già mi chiedo perchè allora hai preso quell'indirizzo di studi, ma so che è una domanda a cui Tu stesso non sapresTi rispondere per cui rinuncio). Così, come tanti, troppi giovani, anche Tu hai deciso di tramutare la Tua passione per gli ambienti in cui Tu Ti ritrovi a passare il Tuo tempo libero, in una ipotetica probabilità di futuro lavoro.
DovresTi sapere che un conto è andare al pub a fare quattro chiacchiere con gli amici ed un conto è aprire un'attività. Molti giovani continuano a confondere le due cose con una ingenuità che è davvero sbalorditiva. “Dato che io vado al bar e mi piace starci con gli amici, ne apro uno io così mentre lavoro, proseguo la mia vita godereccia”. Questi sono tendenzialmente i pensieri che fanno più giovani di quanto sia possibile pensare. E queste scelte sono quelle che portano le famiglie a gettare al vento parte o in tutto i patrimoni accantonati con fatica, solo avendo fiducia nei figli o non sapendo dire di no.
Non entro nel merito di quanto Tu vuoi fare perchè è ovviamente Tua scelta e responsabilità, anche se spero che quanto dirò possa aiutarTi a valutare meglio. Voglio però dire ( o nuovamente dire, se già l'ho detto ad altri) che le attività in proprio a questo livello locale vanno ponderate molto ma molto bene; cosa che non viene quasi mai fatta.
E qui entra in ballo un po' di marketing, nel senso di analisi e conoscenza del mercato. Non so in quale città abiti. E' un dato che sarebbe stato importante conoscere ma anche il non averlo scritto dimostra la Tua predisposizione a non saper affrontare a fondo il problema. Tieni però presente che non è possibile avviare un'attività senza un approfondita conoscenza del territorio, della concorrenza; del target di potenziali clienti; della cultura e mentalità della gente.
Il Tuo sarebbe un locale in più a quelli esistenti. C'è spazio? Vorrebbe dire togliere clienti ad altri. E' possibile? O magari pensi di portarTi nel locale i Tuoi amici e di vivere solo con gli introiti che costoro possono darti?
Vedi, F.F., analizzando l'opportunità in chiave di marketing posso dirTi che Tu, in pratica, vorresTi offrire un “prodotto” (il Tuo locale) ad un parco clienti.
Bene. Un prodotto deve rispondere ad un bisogno perchè venga accettato e se ne faccia uso. Se non risponde ad un bisogno (necessità) nasce già tra mille difficoltà se non addirittura morto.
Devi quindi pensare se, nella città in cui abiti, esiste questo bisogno. Mancano i locali come quello che Tu vorresTi aprire? Vi siete spesso lamentati che non trovate un locale e dovete recarVi altrove?
Se nessuno ha mai lamentato questa mancanza significa che i bisogni del target di potenziali fruitori sono già coperti. Se i locali esistenti coprono le necessità dei giovani del luogo, perchè mai i giovani stessi dovrebbero variare i loro usi. Si, potrebbero magari venire a vedere il locale, ma se già trovano quello che cercano, il Tuo locale non sopravviverebbe.
Ci sono città in cui è quasi certa l'impossibilità di avviare qualcosa di diverso che ancora non c'è ma che si trova altrove. Questo è dato dalla cultura del luogo. Se una comunità trova adeguato ciò che viene loro offerto non andrà a caccia di nuovo. Se, nella stessa comunità, si tenta di aprire locali o attività doppie, triple, multiple, senza che ve ne sia un reale bisogno, si arriverà al fallimento. E tieni presente che io ho parlato di città. Poi magari Tu abiti in un paese o cittadina e quindi le cose potrebbero essere addirittura peggio perchè andrebbe ancor più analizzata la cultura del luogo, l'apertura mentale, l'effettivo target di potenziali clienti. Non basta la presenza di uno o più locali simili a quello che Tu vorresTi avviare per decretare il successo di un altro. Anzi, semmai questo ridurrebbe ancor più le possibilità di sopravvivenza di tutti.
Ma come sempre noi siamo convinti che ciò che abbiamo in testa e ciò che vorremmo fare è giusto e di successo e quindi, agiamo avventatamente sull'onda di nessuna analisi per poi ritrovarci ad aver buttato quel poco che avevamo.
GuardaTi attorno. Ha possibilità di successo la Tua idea? Perchè non devi pensare alla sopravvivenza ma al successo dell'iniziativa. Se la risposta è dubbia, lascia perdere.
Un prodotto, sul mercato, deve soddisfare un vuoto che è stato compreso dall'industria e che vuole così colmarlo. Se il prodotto viene lanciato in un mercato in cui esistono già competitors (concorrenti) nasce tra gli stenti salvo che non sia totalmente innovativo (quindi con plus che altri non hanno) o che non sia supportato da un lancio onerosissimo e mantenuto in vita con altrettanta spesa.
L'apertura di un locale segue le stesse regole. Pensa sempre che Tu, aprendo un locale, intendi offrire al mercato un Tuo nuovo prodotto. Può essere accettato? Ha qualcosa di diverso che altri non hanno e che viene richiesto? Quanti sono i potenziali consumatori (clienti del locale)? Quanto spenderanno mediamente al giorno? E l'incasso coprirà le spese che sono sempre di gran lunga maggiori di quanto ingenuamente si pensa?
Ragiona in questo modo. Prendi carta e penna ed inizia a rispondere a queste domande ma, sopratuttto, cerca di capire se la città abbisogna di quanto Tu vuoi vendere (offrire). Ed oltre alla città pensa anche al rione dove eventualmente vorresTi aprire l'attività. Insomma, F.F., inizia a pensare da adulto e ad approcciare queste tematiche riflettendo molto.
Non si vende mai quello che si vuole, ma solo quello che vuole il mercato. RicordaTelo.
Ciao

giovedì 4 giugno 2009

ESSERE CAPO

Fulvio B. Milano

Egregio dottore,
le scrivo dopo aver più volte letto le risposte che lei dà e che mi pongono probabilmente tra i più assidui suoi lettori. Vengo al motivo del mio scritto. Sono Dirigente in una importante multinazionale. Ho sotto di me un organico a più livelli per un totale di ottanta persone in quanto la mia Responsabilità in qualità di Direttore Commerciale prevede la gestione della rete vendita, del marketing e degli uffici preposti.
Nelle scorse settimane mi si è presentato un caso piuttosto anomalo nel senso che in passato non si è mai presentato. Un mio collaboratore, responsabile di un ufficio, si è trovato nella condizione di coprire un posto vacante di un suo dipendente e per questa posizione ha voluto insistentemente che fosse assunto un suo amico, dicendo che lui ne sarebbe stato responsabile. Io, anche se non ritengo corretto questo modo di fare per la prima volta ho lasciato fare ma ora non sono convinto di aver agito bene. In passato io per primo controllavo le candidature, facevo i colloqui alle persone passando poi all'ufficio del personale quelle scelte affinchè valutassero e scegliessero. Mi piace sempre che chi lavora con me sia una persona di cui mi fido, che conosco e su cui posso contare. Sulle scelte di altri invece, non so.
Poiché la persona che dovrebbe essere assunta non ha ancora iniziato dovendo terminare il periodo di dimissioni in altra azienda, sono ancora in tempo ad annullare il tutto. Faccio bene a farlo?

Gentilissimo Dr. Fulvio,
mi permetta di parlarLe in modo estremamente aperto. Sbagliare non significa doverlo fare sempre e Lei, per quanto mi consta, in passato ha sbagliato e vorrebbe continuare a farlo. Il motivo? Forse la paura di perdere il controllo; il timore di essere superato; il terrore di vedere che tutto può funzionare anche senza di Lei.
Lei sceglieva, intervistava e di fatto poi, pur demandando all'ufficio del personale la scelta finale, siglava con un Suo OK una scelta tra persone che Lei aveva già valutato. In tutto questo vi è, egregio Dr. Fulvio, la volontà di essere presente e decidere in toto. Questo, solitamente, avviene quando davvero vi è paura di poter essere scavalcati o accantonati per cui si tende a tenere tutto sotto stretto controllo.
Ma questo, scusi se lo dico, porta ad avere sotto di sè un gruppo di “signorsì” raramente professionalmente validi.
Lei ha ancora un'immagine del Suo lavoro e della Sua posizione che forse non è più in linea coi tempi. Innalza la Sua figura perchè pensa che ciò crei valore. Scrive Dirigente con la D maiuscola, riferendosi a sé e poi scrive “lei” in minuscolo riferendosi ad altri. Dà molta importanza al Suo lavoro, addirittura scrivendo Responsabilità con la maiuscola. Insomma, cose che La datano un po' nel modo di pensare.
Suvvia, cosa c'è di male se un Suo collaboratore ha chiesto di assumere un amico? L'azienda non assume amici ma collaboratori che sappiano fare il lavoro per cui sono chiamati. Quella persona, almeno sulla carta, sa fare ciò per cui lo si assume? Se si, va bene. Alla fine, che sia amico di qualcuno che importa?
Vede Dr. Fulvio, io credo che un Capo sia colui che coordini il proprio gruppo di lavoro dando al gruppo le indicazioni, gli obiettivi e gli strumenti per raggiungerli. Deve dare le motivazioni e deve incentivare il gruppo affinchè sia portato ad operate nella stessa direzione. Poi deve lasciar libero il gruppo di organizzarsi al meglio al fine di raggiungere gli obiettivi. Solo in questo modo i componenti il team si sentiranno responsabilizzati.
Il Capo deve esserci quando il gruppo chiede il Suo aiuto ma non deve opprimere con la presenza. Non dev'essere ingerente e non deve decidere per il gruppo se il gruppo non lo chiede.
E' difficile fare il Capo in questo modo perchè significa non avere la sicurezza che si ha quando si pensa “questo lavoro va fatto così, lo so io”. Ma è così che il Capo deve agire.
Il Suo collaboratore che ha chiesto questa innovazione che a Lei è indigesta, ha solo mostrato di avere tempra e volontà di prendersi responsabilità. Infatti, se la persona che assumerete apparirà brava, Lei saprà che il Suo collaboratore non ha assunto un amico ma ha proposto quell'amico in quanto persona valida. Tanto di cappello quindi al collaboratore. Se invece la persona assunta (che dovrà poi lavorare nel team del collaboratore) risultasse un bluff, il primo ad aver fatto un cattivo affare sarà proprio il collaboratore ed avrà sbagliato due volte: davanti all'amico e davanti al Capo. E dovrà pure trovare soluzioni per allontanare l'amico.
Non pensa che lasciando agire la persona Lei si trova nella possibilità di valutarla anche per questo?
Trovo che tutto questo sia, alla fine, terapeutico per Lei, il Collaboratore ed il team. Deve solo....digerirlo ed io chiedo che Lei lo faccia. Le chiedo inoltre di trovare il tempo per analizzare il Suo comportamento di Capo e vedere se non vi sia la possibilità, che c'è senz'altro, di nuove aperture verso i collaboratori.
Buon lavoro.

mercoledì 3 giugno 2009

VENDERE DA DIETRO IL BANCO

Anna B. (loc. n.c.)

Ho ventiquattro anni e da due sono commessa in un negozio piuttosto frequentato della mia città. Il lavoro mi piace,credo di avere predisposizione ma da un po' di tempo tutto sta diventando pesante e monotono. Non so cosa fare anche perchè devo lavorare per vivere e se penso di cambiare non saprei cosa fare.
Perchè sto vivendo questa fase? Mi rendo conto che sia difficile rispondermi ma può darsi che in passato abbiate avuto altre situazioni simili.
Vi ringrazio anche se potete dirmi poco. Se non potete, rispondetemi ugualmente per farmi capire d'aver ricevuto questo scritto. Grazie

Cara Anna,
Ti rispondo anche se, come dici Tu, è davvero un po' difficile capire i problemi che da qualche tempo hai. Ci vorrebbe la sfera di cristallo per capire ed io non ce l'ho.
Come sempre in questi casi devo quindi aiutarmi con l'intuito e, più che risolvere un problema che non conosco, cercherò di farTi ritrovare l'entusiasmo in quello che io ritengo essere un gran bel lavoro (non compreso, ma bello).
Tra i corsi formativi che ho creato ce n'è uno appositamente studiato proprio per questo. Allora, prendo il materiale ed inizio a sfogliare.
Non posso scriverTi tutto il corso ma cercherò qualche punto adatto al Tuo caso.
Non è facile, Anna, stare tutto il giorno ad ascoltare i clienti, i loro problemi e le richieste. Anzi, dopo un po' diventa davvero pesante e difficile; allora, la soluzione è solo quella di “rendere il lavoro, migliore”.
Renderlo migliore significa “farlo con passione”, ovvero essere consapevoli che, seppur ha momenti pesanti è comunque un lavoro bello da fare. E per farlo con passione, occorre amarlo. Si può amare il proprio lavoro? Si. Certamente; anzi si dovrebbe sempre amare il lavoro che si svolge, proprio per renderlo più “leggero”.
Sai Anna, ricordaTi questa semplice frase: “ se si ama ciò che si fa, lo si farà sempre bene e tutto sarà più facile”.
Il lavoro dietro il banco (o comunque in negozio) diventa difficile quando non vi è comunicazione tra il commesso ed il cliente ovvero quando il commesso è lì solo per ascoltare ciò che vuole il cliente, servirlo e stop. Magari senza un sorriso.
Vendere in negozio invece significa “suggerire al cliente le soluzioni ai problemi”. Ogni cliente che entra e viene da te, ha un problema. Puoi chiamarlo in altro modo: necessità, bisogno, interesse, voglia, ma sempre un problema rimane e da Te vuole che sia risolto.
Pensa che il cliente arriva nel punto vendita con la sua necessità da soddisfare e cerca una soluzione. Ecco allora che, in altri termini, cerca “qualcuno che gli proponga qualcosa che soddisfi la sua necessità”.
Molte volte, parlando con commesse ho percepito il cliente vissuto con terrore; come qualcuno che va da loro, non per vedere risolto un loro problema ma come qualcuno che si diverta a stressare ed a rendere complicata la vita della commessa.
Davanti ad una visione simile è chiaro che il lavoro di vendita nel negozio diventa un fardello pesante da portare. Ed altrettanto è chiaro che il cliente non potrà trovare soddisfazione in un rapporto in cui è visto come scocciatore.
Commesse/i così fatti dovrebbero pensare che se non ci fossero clienti non esisterebbe nemmeno per loro, possibilità di lavoro.
Da decenni le vendite si sono portate, per molti prodotti o segmenti di mercato, alla libera vendita. Il cliente entra in negozio, si serve, paga ed esce. Niente dialogo. Vi sono però ancora nicchie in cui le vendite funzionano solo se nel punto vendita ci sono commessi a dialogare coi clienti. Anziché comprendere questa situazione come una manna, alcuni commessi sono quasi scocciati, come se il cliente, entrando disturbasse.
Tieni presente sempre questo, Anna: pensa che quando un cliente entra nel Tuo negozio, è già in buona parte disposto ad acquistare e che almeno il 50% del lavoro è già fatto. Vuoi fare il rimanente 50%?
Bene, accogli il cliente sorridendo, guardandolo negli occhi, suggerendogli mentalmente e con lo sguardo che Tu hai la soluzione alle sue necessità.
Trovi sia impossibile? No, Anna, è possibile.
Pensa che noi comunichiamo con le parole ma anche, e Tu certamente lo sai perchè se ne parla ormai su ogni settimanale, col corpo. Il cliente, anche se non credi, percepisce la disponibilità della commessa rendendosi subito conto della sua volontà ad aiutarlo. In altre parole, se la commessa tiene questo atteggiamento, metterà il cliente a proprio agio.
La vendita, Anna, è di per sé un rapporto in cui due persone cercano di comunicare per trovare una soluzione che soddisfi entrambi. La commessa vende ed il cliente, acquistando, risolve una necessità che aveva. Il lavoro in negozio dunque, va visto come una sfida a se stessi sul riuscire ad accontentare il maggior numero di persone. PrendiTi la briga, Anna, di arrivare in negozio il mattino pensando che quel giorno dovrai aiutare a soddisfare i bisogni dei Tuoi clienti e che vorrai farlo. Pensa che sarai contenta se, a sera, avrai aiutato tutti. Datti un obiettivo: far si che ogni cliente esca soddisfatto con un pacchetto sottobraccio.
Insomma, dai più motivazione al lavoro; incentiva Te stessa e scommetti d'esserne capace. Ad ogni cliente che uscirà dal negozio con un pacchetto fatto da Te, ripetiTi che sei brava e sfidaTi a far si che il successivo cliente acquisti anche lui.
Pensa sempre che il cliente comprende se la commessa lo ritiene importante. Tuo compito quindi è far si che il cliente abbia questa sensazione. Quando il cliente è tenuto in considerazione “avrà fiducia ed accetterà sempre più il Tuo aiuto”.
Non voglio andare oltre perchè finirei per stancarTi, ma possiamo riprendere se lo riterrai utile (o se altri lo dovessero ritenere).
Per oggi, rifletti su quanto ho detto. La stanchezza nel lavoro affiora quando si perdono di vista gli obiettivi o, non essendoseli mai dati, non si ha nulla a cui collegarsi per superarsi e mettersi alla prova.
La stanchezza arriva quando non si percepisce il cliente nella giusta ottica.
Vuoi fare un gioco? Ribalta la situazione. Vedi Tu il cliente come qualcuno che Ti è utile al fine di raggiungere il Tuo obiettivo (vendere ad ognuno). Vedrai il cliente sotto un altro punto di vista: dovrai essere disponibile, brava, cortese, propositiva perchè solo in questo modo, vendendogli ciò che vuole, riuscirai a raggiungere ciò che Ti sei prefissata.
Prova.
Ciao